GROTTA GUATTARI
Dove il tempo si è fermato 50.000 anni fa.

Il 24 febbraio 1939, mentre scavava alla base di un costone roccioso, l’operaio Vincenzo Ceci portò in luce uno stretto cunicolo attraverso il quale si poteva accedere, strisciando per terra, alle camere di una grotta che era rimasta sigillata da una frana più di 50.000 anni fa. Il proprietario del terreno, Alessandro Guattari, esplorò per primo la cavità: «Alla tenue luce della candela penetro nel vuoto. Una visione fantastica si presenta ai miei occhi. Pareti pietrose irregolari e vuoti cavernosi offrono chiaroscuri da far paura. Il piano della grotta è letteralmente ricoperto di ossa e pietre con fioritura calcarea». La mattina seguente, munito di una torcia elettrica e accompagnato da alcuni operai, Guattari continuò l’esplorazione della grotta rinvenendo in un vano laterale, poi chiamato Antro dell’Uomo, un cranio neandertaliano perfettamente conservato (Circeo I). Lo studioso Alberto Carlo Blanc, che da alcuni anni si interessava al Circeo e aveva già raccomandato a Guattari di conservare eventuali reperti che fossero stati scoperti durante lo scavo, fu immediatamente avvertito del rinvenimento. Il pomeriggio del 25 febbraio effettuò un sopralluogo, mentre era di passaggio a San Felice durante il suo viaggio di nozze. Riconosciuta l’importanza scientifica della scoperta, Blanc fece chiudere l’accesso alla grotta e la sera stessa portò il cranio a Roma, affidandolo all’antropologo Sergio Sergi. Nel corso di una successiva visita al sito (28 febbraio 1939), inoltre, una dipendente di Guattari consegnò a Blanc una mandibola neandertaliana (Circeo II), che era stata anch’essa raccolta nell’Antro dell’Uomo. Dopo aver ascoltato le testimonianze degli scopritori, Blanc stabilì che il cranio «giaceva quasi al centro dell’antro, verso il fondo, assieme ad ossa di Cervidi, Suidi e Equidi, scheggiate, tra alcune pietre disposte circolarmente». Blanc e il paleontologo Luigi Cardini iniziarono subito le ricerche archeologiche sia all’interno che all’esterno della grotta, realizzando numerose trincee di scavo. Nella cavità affiorava una paleosuperficie del Pleistocene perfettamente conservata, cosparsa di pietre e ossa ricoperte di concrezioni. Gli scavi individuarono una sequenza di strati contenenti ossa animali, carbone e alcuni strumenti di pietra, ma non furono scoperti altri resti neandertaliani. Alla base del deposito archeologico fu portata in luce una spiaggia fossile con ciottoli arrotondati e conchiglie tipiche dei climi caldi: era la testimonianza del Tirreniano, un periodo interglaciale di circa 125.000 anni fa, durante il quale il livello del mare era più alto di quello attuale e l’acqua arrivava a penetrare nella grotta. Negli anni ’40 e ’50 il sito fu interessato da altri interventi. Nel 1950 venne recuperata un’altra mandibola neandertaliana (Circeo III) che affiorava lungo una sezione all’esterno della grotta.



Le indagini di Blanc e Sergi rilevarono che il cranio del Circeo presentava due mutilazioni:una presso la regione temporo-orbitale, l’altra intorno al foro occipitale. La prima era probabilmente dovuta ad un forte colpo inferto all’altezza dell’orbita destra. La seconda, in base al confronto etnografico con le pratiche dei cacciatori di teste melanesiani del sud-est asiatico,fu invece interpretata come un allargamento intenzionale della base del cranio, finalizzato all’estrazione del cervello. Gli studiosi ipotizzarono, quindi, che il neandertaliano di Grotta Guattari fosse stato ucciso in maniera violenta e che altri individui avessero poi praticato un atto di cannibalismo, nutrendosi del suo cervello. Anche la deposizione del cranio all’interno di un cerchio di pietre poteva far parte del medesimo rituale cruento. Questa ipotesi è stata accettata dalla comunità scientifica per cinquant’anni, divenendo un esempio emblematico del mondo culturale e simbolico dei neandertaliani.


Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, tuttavia, i risultati di nuovi studi ribaltarono l’interpretazione archeologica dominante. Nel corso del simposio internazionale “The fossil man of Monte Circeo. Fifty years of the Neandertals in Latium” , che si svolse a Sabaudia nel 1989, furono presentati i resoconti di nuove analisi, condotte soprattutto da studiosi statunitensi. Le ricerche si concentrarono sulla revisione del contesto archeologico, stratigrafico e sull’analisi del cranio e delle altre ossa animali rinvenute nel sito. Le indagini tafonomiche (la tafonomia è la disciplina che studia i processi che portano dalla morte di un organismo alla sua fossilizzazione) dimostrarono che sia i numerosi resti faunistici sia il cranio neandertaliano presentavano in realtà solo tracce dell’attività delle iene. La successione stratigrafica, inoltre, indicava che un’eventuale occupazione neandertaliana della grotta poteva essersi verificata solo nelle fasi più antiche del sito intorno a 75.000 anni fa, mentre in seguito l’interro dei cunicoli d’ingresso avrebbe permesso la frequentazione solo ai gruppi di iene. Furono perciò questi carnivori a rosicchiare la base del cranio per raggiungere il cervello e ad accumulare le ossa presenti all’interno della cavità, utilizzata come una tana per allevare e nutrire i loro piccoli. Un’altra frana, avvenuta intorno a 50.000 anni fa, sigillò poi definitivamente l’ingresso delle grotta, creando una sorta di capsula del tempo che ci ha restituito un’istantanea della vita nel Pleistocene.


I nuovi scavi, tra il 2019 e il 2023, diretti dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Frosinone e Latina in collaborazione con l’Università di Roma Tor Vergata, hanno evidenziato una stratigrafia complessa e ricca di materiali archeologici. Sono stati recuperati migliaia di resti ossei, molti coproliti di iena (feci fossili) e manufatti di pietra realizzati dall’uomo di Neandertal. Tra i resti faunistici, sono stati individuati numerosi carnivori come il lupo, la volpe, l’orso, il gatto selvatico, il leopardo, il leone delle caverne e soprattutto molti resti di iena. Gli erbivori sono rappresentati sia da pachidermi come l’elefante e il rinoceronte, sia da bovidi, equidi, suidi e cervidi. Molte ossa presentano tracce di masticazione da parte dei carnivori, e questo conferma che la grotta era stata utilizzata dalle iene come una tana per allevare i propri piccoli. Due frammenti ossei, comunque, presentano tracce di macellazione lasciate da strumenti di pietra, che suggeriscono che anche l’uomo potrebbe avere avuto un ruolo nell’accumulo dei resti. La scoperta più eclatante riguarda il rinvenimento di numerosi resti umani, individuati sia dentro la grotta, in strati datati a circa 65.000 anni fa, sia all’esterno, in sequenze stratigrafiche ancora più antiche. In totale, sono state recuperate alcune decine di frammenti ossei e denti, appartenenti ad almeno quattro individui neandertaliani. Tra questi,risultano particolarmente importanti alcuni frammenti di cranio ben conservati e diverse ossa lunghe che presentano tracce di masticazione da parte delle iene.